di Fiorenza Villano
Sono rimasta
positivamente colpita dal docu-film visto venerdì 15 novembre: Ossigeno di Piero Cannizzaro.
Tralasciando
il piacere di avere in aula non solo studenti ma altri professori e
professionisti del settore, ho apprezzato l'originalità di questo documentario,
di questo film.
Non ci sono effetti speciali, non ci sono
movimenti particolari di telecamera (se particolare non vogliamo definire il
modo in cui è stato girato), non ci sono cambiamenti di scena rilevanti, non ci
sono personaggi.
C'è solo lui,
il protagonista. Il protagonista ed il suo volto, sporadicamente lasciato per
inquadrare le sue mani o i suoi piedi.
Un volto
segnato dalle storie a cui ci permette di partecipare in un modo semplice ma coinvolgente,
anche per me, che quell'epoca non l'ho vissuta, che quella vita di vent'anni di
carcere ed orrore non l'ho vista e non ho mai neanche immaginato, mi permette
di riviverla, quasi di sentirla mia. Un modo narrativo semplice che richiama la
narrazione orale dei padri e dei nonni che ricordano momenti andati della loro
vita e che pure sembrano lì, avanti agli occhi.
Ero con il
Signor Agrippino Costa quando tenta l’evasione da Pianosa, ero con
lui quando conosce la prostituta dal volto materno di Marsiglia, quando viene
chiuso in un manicomio. Le sue evoluzioni, le sue esperienze, le sue
comprensioni sulla vita che non sono date da uno studio disperato
dell’esistenza ma dalla mera esperienza di una vita all’insegna dell’anarchia,
al seguito dei brigatisti, diventano anche le mie.
E diventano
le mie grazie alla sua voce, grazie alle inquadrature semplici, amatoriali del
regista.
È stato
bello conoscere il coinvolgimento tra il Signor Cannizzaro e il signor Costa in
un’esperienza di tredici anni che viene intervallata dagli ulivi pugliesi tra un racconto ed un altro e che porterà al
culmine di una vita piena di amore grazie a Lucia, a quel femminile che in
tutti deve essere scoperto, e anche grazie ai suoi figli.
È stato
bello conoscere il legame che in un lasso di tempo così grande aveva unito queste
due figure, attore della propria vita e regista della vita e delle esperienze
di altri, è stato interessante conoscere l’empatia che li legava e che è stata
riportata in una pellicola così spoglia di qualsiasi farcitura cinematografica.
Si è parlato
di paesaggio umano, perché era tutto un primo piano sul volto espressivo
dell’uomo, sui suoi occhi, sulle sue rughe, sulla sua bocca. Non era ciò che
circondava l’uomo ad importare, non i paesaggi, non i luoghi ma l’essere nella
sua totale pienezza che non permette allo spettatore di stancarsi, di staccare
gli occhi dell’immaginazione da una storia così surreale eppure veritiera.
Un film
coraggioso, che mi ha piacevolmente sorpreso e che mi porta sempre di più a
quanto sia falsa la connotazione di “morto” che si da al cinema italiano
contemporaneo.
Spero riesca
a superare in qualche modo tutti gli ostacoli che il nostro Stato, la nostra
legislatura ha imposto, così come in altri ambiti, a questo mondo meraviglioso,
che può essere sia portatore di illusioni sia portatore di verità che ora come
ora nel nostro asfissiato paese non ha possibilità di emergere e splendere come
dovrebbe.
Spesso da anni, forse da centinaia di anni, il tuo volto, Agrippino, mi appare in sogno...come se tanti anni fa fossimo vissuti insieme in una tribù di pellerossa...nonostante negli ultimi venti anni ci siamo incontrati solo una decina di volte o poco più, a casa tua o a casa di Peter, ti voglio un gran bene... incontrarti poi casualmente a Roma in quella chiesa di missionari è stata una emozionante sorpresa, resta in me un'incontro sacro... Ti abbraccio Agrippino.
RispondiEliminaGiovanni