martedì 22 ottobre 2013

"Reality". L'occhio giudice di Matteo Garrone

di Nicolas Bilchi

Penso che "Reality" di Matteo Garrone sia un film importante sopratutto perché dimostra definitivamente la piena maturità registica di questo autore. 
Il contenuto essenziale dell'opera consiste nel mostrare l'esistenza, attraverso le vicende di un pescivendolo napoletano che partecipa alle selezioni del Grande Fratello e attraverso l'attesa di un verdetto che non arriva e stravolge la sua vita e modifica il suo modo di rapportarsi al mondo, di una industria culturale che, servendosi della televisione quale medium in grado di creare una comunicazione unilaterale con un elevatissimo numero di fruitori, mira all'edificazione di un sistema di valori che il regista giudica evidentemente distruttivo: per raggiungere il successo, la notorietà, per arrivare ad una piena realizzazione del sé e per migliorare la propria condizione sociale, l'unica via possibile è "andare in TV", partecipare ad un reality show, e aderire necessariamente ai canoni estetico-comportamentali che il sistema impone quali requisiti fondamentali per esserne "accettati".

Ora, all'argomento e al racconto delegato a svilupparlo si affianca il problema della forma, cioè della costruzione di un meccanismo estetico che, operando una selezione nella vasta gamma di possibilità stilistiche messe al servizio dell'autore dal dispositivo, riesca ad esprimere il tema nel modo più efficace possibile, trasformando la semplice diegesi, esistente di per sé come forma di narrazione, in fatto cinematografico, cioè filtrato dall'applicazione pratica dei meccanismi linguistici della forma espressiva utilizzata. E in ciò individuo il massimo risultato di quest'opera: l'uso delle tecniche più generalmente attribuite alle pratiche della modernità cinematografica: il piano sequenza e la profondità di campo mi hanno fatto pensare come possibile modello al Renoir de "La regola del gioco" (e a Fellini per un certo lavoro surreale sul trucco e sulla fotografia in alcuni frangenti), sopratutto nella scena iniziale del matrimonio grazie all'uso di movimenti di macchina rapidi e sinuosi che cercano di documentare la grande messinscena del set tridimensionale nelle sue parti minime.

Tuttavia, trattandosi qui di un film di impronta dichiaratamente sociologica, Garrone sviluppa una facoltà ulteriore nella tecnica adottata che non interessava in modo diretto Renoir; mi è piaciuto definire tale tratto estetico come l'uso di una "camera-giudice", vale a dire di uno sguardo volutamente distaccato e freddo che ponga in ogni momento lo spettatore in una condizione adatta alla formulazione di un giudizio di natura morale rispetto ai fatti che si svolgono davanti ai suoi occhi: operando in modo negativo, cioè lavorando sulla sottrazione degli psicologismi attraverso l'annullamento del montaggio di tipo classico, il regista rende impossibile qualsiasi identificazione e simpatia nei confronti del protagonista, dal momento che le inquadrature non ne assumono mai il punto di vista costringendo il pubblico ad aderirvi seppur in minima misura. 
In questo modo, i fatti sono presentati nel loro svolgersi "reale" e guardati da una distanza critica simile a quella assunta da un perito chiamato ad analizzare una serie di reperti in merito ad un caso sul quale, alla fine, sarà chiamato a trarre una sentenza.

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