di Daniele Pomilio
Il grande ‘Incubo che mi son scelto’
è un volume collettaneo di studi che festeggia i quarant’anni dall’uscita di Profondo
rosso, il film cult di Dario Argento qui canonizzato come grande classico
del cinema horror italiano da un gruppo di studiosi operanti in diversi atenei
nazionali e interazionali. In questo libro, redatto in tre lingue in uno stile volutamente
informale se non addirittura conviviale, troviamo tutte le credenziali per
esplorare a fondo questo thriller di forte impatto sonoro e visivo. I due
curatori (Michel Delville e Luciano Curreri) ne raccontano i contesti,
anticipando le annotazioni di Daniele Comberiati sull’influsso di questo film
sulla letteratura horror italiana degli anni Novanta e sul fumetto horror
italiano. Seguendo percorsi autobiografici a tratti anche un po’ casuali, gli
autori ricostruiscono il fitto dialogo del regista romano con i classici
dell’horror americani nella temperie politica e culturale degli anni Settanta,
carica di suggestioni kitsch e di eccessi rielaborati in maniera esemplare in
una forma che anticipa molti aspetti del cinema splatter. Curreri ripercorre
gli anni turbolenti che seguirono all’impegno del Sessantotto, e vissuti nel
mito di una rivoluzione associata a una violenza che, come sottolinea Delville,
andò a convergere nel carattere splatter del film e della relativa discesa negli
inferi che esso suggerisce.
Marco Giori racconta il disadattamento
dei diversi che Argento pone al centro del suo racconto cinematografico, nel
quadro di un immaginario sociale ancora rigidamente eterosessuale e che indusse
il regista a non rimuovere presenze perturbanti e personalità traumatizzate
nella sua pellicola. Tutte queste turbolenza e trasgressività represse trovano
una forma truculenta nei film gialli di Argento, i quali raccontano di
nevrotici e di maniaci, segnati da traumi infantili e da una serie di
disfunzioni comportamentali. Sono d’altronde proprio quelli gli anni della
legge Basaglia e dell’apertura dei manicomi e, non a caso, i film di Dario
Argento liberano tutte le intemperanze e le distorsioni patologiche associate al
profilo complesso dell’omicida. Non a caso, come ricorda in seguito Duffett, Argento,
come Ingmar Bergman prima di lui, fonda la sua visione cinematografica sui
propri stessi incubi e sulle proprie ossessioni, facendo in modo che gli
eccessi splatter delle sue pellicole sprigionino tutto il caos di un’energia
psichica capace di rompere gli schemi razionali entro un disegno iperbolico e spettacolare.
Dalle pagine di questa raccolta di saggi scopriamo,
quindi, un Argento cultore della psicoanalisi e grande ammiratore dell’Hitchcock
di Psycho, che assorbe il modello di omicida psicotico già comparso nel
lavoro di un altro suo grande maestro, il regista Mario Bava. Più di un saggio nel volume affronta il legame di Profondo Rosso
con il Psycho di Hitchcock. Michel Delville scava anche nelle origini
letterarie e americane del genere horror, insistendo sulla passione di Argento
per i racconti di Poe e la sua erotizzazione del cadavere. A questo proposito,
egli ricorda anche l’importanza di un altro maestro americano del racconto del
terrore, H. P. Lovecraft, il quale impresse al racconto gotico ottocentesco
forti connotazioni dichiaratamente psicologiche.
Delville insiste molto anche sulle
implicazioni simboliche del cromatismo del titolo del film, il quale rimanda all’intensità
del colore rosso sangue, che è “profonda” proprio perché in stretta relazione
con un’interiorità buia e inconscia che
conflagra nell’escalation sanguinosa e distruttiva del film, in base a
una scelta stilistica che, secondo Delville, assume una precisa connotazione
politica. L’ossessione edipica su cui s’incentra il modello hitchcockiano a cui si
ispirano tutti i maestri del cinema del terrore degli anni Settanta torna nelle
considerazioni di Mark Duffett, il quale coglie i segni dell’unheimlich e della
progressiva defamiliarizzazione delle relazioni domestiche che, a suo avviso,
costituiscono anche un omaggio di Argento al Blow-Up di Antonioni.
Alexandra Heller-Nicholas e Craig Martin
si soffermano sulla rappresentazione dei bambini che, nei film di Argento,
hanno il ruolo di vittime che manifestano tutto il loro disagio attraverso i
loro disegni premonitori. E’ a questo proposito che i due critici rileggono il
film anche come la risposta italiana a L’esorcista di William Friedkin e
a Rosemary’s Baby di Roman Polanski.
Peter Hutchings prende invece le mosse
dalla colonna sonora molto innovativa dei Goblin, contrastandola con le scene
jazzate che accompagnano uno dei protagonisti, Marc, giunto a Torino per
l’appunto per diventare insegnante di jazz, e cioè di una musica che, come si
sente dire nel film, nacque nei bordelli, e che è molto lontana dal miracoloso connubio
prodotto nel film dalla colonna sonora del pop elettronico firmata dai Goblin.
La musica di Profondo rosso interpreta
appieno la spirale patologica che , nel film, culmina nell’immagine del quadro
dell’omicidio dipinto dal giovane figlio dell’assassina, nel tentativo di
coprire il primo omicidio della madre.
Léopold Dubois evoca invece i temi del
travestimento, rimandando a Dressed to Kill di De Palma, rielaborando il
mascheramento transgender che s’impone nella scena dello specchio in cui, per
pochi istanti agghiaccianti, s’intravede l’omicida vestita in abiti maschili, come
nota anche Delville.
Jeremy Hamers, Dick Tomasovic e Laurent
Vanclaire concludono questa dinamica rassegna analitica su questo capolavoro
dell’horror italiano che viene esaminato, articolo dietro articolo, in quasi
ogni singolo segmento, fino a offrire un quadro d’insieme di tutti i piani del linguaggio
cinematografico di Argento, in un mosaico critico, condotto affabilmente, e che
ha l’obiettivo non banale di classicizzare, sebbene in ritardo, questo
capolavoro del cinema italiano.
Una bibliografia completa sul film avrebbe di certo valorizzato i
diversi pregi di questo volume coraggiosamente edito da una piccola casa
livornese già nota per essere entrata due volte in lizza per il Premio Strega.
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