mercoledì 16 ottobre 2013

Il profumo delle arance nell'inferno felliniano. "Che strano chiamarsi Federico", di Ettore Scola

di Donato Leoni

Cerco di trovare il film usando internet, in streaming o Emule per scaricarlo (come avrebbe fatto qualunque mio coetaneo), ma non ci riesco in nessun modo. Allora mi informo se viene ancora proiettato in qualche sala, finalmente lo trovo! 
E sembra che l'unico modo per andare a vederlo sia quello di andare al "Greenwich" a Testaccio. Arrivo in un nuvoloso pomeriggio di domenica, entro, e appena seduto mi accorgo di trovarmi in un universo cinematografico totalmente distante da quello che sono abituato a vedere nei Multiplex. Qui si respira ancora l'aria del "vecchio cinema", quello di cui mi parlava mio nonno. Un luogo in cui ci si recava con le uova e una ciotola per farsi "l'uovo sbattuto" e berlo durante la proiezione, mentre si guardava il film. 
Mi accorgo di questo dagli odori che arrivano alla mia poltrona, dalla sala: gente che sbuccia e mangia arance, gente che mangia panini caldi e che si è portata altra frutta da casa, dalla quale emanano odori inebrianti.
Mi sento "a casa", anche perché mia nonna è stata una dipendente dell'Istituto Luce per 41 anni e conosceva benissimo Fellini, quindi mi sento doppiamente motivato a "godermi il film".

La prima immagine è iconica: un Fellini con la sedia da regista, la sciarpa, il Fedora, e il megafono, che contempla un mare talmente bello da essere irreale! Ma da lasciare me comunque stupito. 
Da qui inizia subito una carrellata di personaggi che passano, illuminati da un "occhio di bue", e si esibiscono in performance belle ma semplici, "antiche", delle bolle di sapone, trucchi di magia, uomini sputa fuoco e così via, una sorta di "circo" in pieno stile "Felliniano".
Quasi subito, capisco che non sarà il solito film, ma sarà una sorta di "Divina Commedia", difatti vengo accompagnato da un fantastico “Vittorio Viviani” nella parte del "narratore", una sorta di "Virgilio" che ci accompagna in questo che sarà un inferno "Felliniano" più che "Dantesco".

Sequenze in bianco e nero di un Fellini giovane, interpretato da “Tommaso Lazotti” che ha una vera somiglianza con "Il Maestro", inoltre le sequenze riprendono proprio, per stile, illuminazione, comicità e inquadrature, i classici film di cui Fellini fece da sceneggiatore, come quelli di Totò (Totò Le Mokò) o di Fabrizi e altri del genere.
Vengono alternate scene di repertorio interessantissime, soprattutto per chi, come me, vuole diventare regista un giorno.
Il "vecchio" Fellini non viene quasi mai inquadrato in viso, non solo per necessità, ma penso anche per scelta del regista.
Vengono inserite vere interviste audio di Fellini, che vengono mimate dall'attore che interpreta il Maestro da vecchio, e anche se il trucco è semplice e si nota quasi subito, per un attimo sembra che voce e fisicità siano veramente suoi.

Quando non viene usato l'audio del vero Fellini, viene doppiato da “Mino Caprio” che imita quasi alla perfezione l'inconfondibile voce del Maestro.
Tutta Roma viene ricostruita nel “Teatro 5”, il teatro di cui tanto mi parlava mia nonna quando ero piccolo, e dove mi portava a fare le gite "cinematografiche" raccontandomi aneddoti e curiosità.
Non viene nascosto più di tanto allo spettatore che Roma sia ricostruita nel teatro, anzi, viene scelto di farlo vedere, quasi per far intendere che Roma per Fellini era tutta un teatro, dove si muovevano i suoi "burattini", come lui li raffigurava sulla locandina di Ginger e Fred, locandina appesa sul muro della camera di mia nonna, che io per anni ho guardato, fissandomi sulla dedica autografata del Maestro, senza capire chi egli fosse.
Per tutto il film, Scola rappresenta Fellini come un eterno bambino, e non un bambino qualunque, ma Pinocchio (non a caso un burattino anche qui), un "eterno pinocchio" che racconta grandi fantasie e fa sognare milioni di persone. Fellini è raffigurato non più di tanto per come era, ma per come "era visto", un "falso balenio di una follia ragionante".


Continuano a scorrere pezzi di repertorio e scene create ad arte, la recitazione di tutti gli attori è piuttosto buona. Mi aspettavo di peggio da una produzione italiana che io tanto "snobbo" di solito. Una cosa che mi ha colpito è che non è stata inserita, ne nominata minimamente, la grande scena de "Il Tassinaro" con Alberto Sordi, nella quale, in via del tutto eccezionale, Fellini interpreta se stesso in un "dialogo a due" con Sordi per ben 10 minuti. Una sequenza che fece storia.
Pensavo che nella scena dove lui torna a Roma, dopo aver preso innumerevoli Oscar e viene applaudito e venerato da molti tassisti romani, venisse inserita, invece niente! Forse solo aver messo i classici taxi gialli era già un "tributo" a "Il Tassinaro", o voglio sperare che sia così.
Il film, oltre a essere biografico e Felliniano, è soprattutto "patriottico". L'orgoglio del cinema italiano, così come viene visto e apprezzato nel mondo. 
Nel mondo ci conoscono per poche cose, per stereotipi e luoghi comuni, e uno di essi è proprio lo stile "Felliniano" che contraddistingue, in fondo, ogni italiano medio.

La fine è quasi metafilmica. Al frammento di repertorio del vero funerale viene aggiunta una scena dove un Fellini anziano contempla la sua bara, per poi fuggire inseguito da due carabinieri, come se fosse immortale, come se persino la sua morte fosse tutta una "messa in scena", forse proprio da lui , organizzata e diretta: un'ennesima "marachella" del "Pinocchio" ricordato e raffigurato da Scola. 
Fellini, inseguito dai carabinieri, scorre tutti i Cinecittà Studios in lungo e in largo, passando per vari set, fino ad arrivare ad una giostra, dove si siede, guarda caso in un'auto anni '50, come piaceva a lui, e viene mostrata quasi tutta la filmografia del Maestro, come in un grande "Giro di Giostra”.
Il film era iniziato come una Divina Commedia Felliniana, con un Virgilio che ci accompagna per questo “Inferno”, e Fellini nella parte di "Dante", fino ad arrivare infatti all'agognato “Paradiso”, il “suo Paradiso”, cioè, il mare bellissimo e irreale, il "suo mare" che contempla in silenzio, l'inquadratura da dove era iniziato tutto e con la quale termina il film.

Concludo dicendo che è stata una bella esperienza, anche per me "Felliniana". E pur non apprezzando io Fellini come tanti altri, esco dal cinema estasiato, con dentro di me ancora più motivazione per il mondo del cinema e per questa fantastica e quasi divina figura-mansione del “regista cinematografico”.




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